Abbiamo già affrontato più volte il tema della boxe intesa come via di “fuga” da realtà negative e come strumento di emancipazione. Emancipazione da un tessuto sociale che tende a costringerti ad abbracciare una filosofia criminale, come ha raccontato Saviano, o più semplicemente dalla povertà.
La storia di Dewey Bozella racconta invece del definitivo affrancamento da un passato in cui si è subita una grave ingiustizia, a 52 anni Bozella ha vinto il suo primo e ultimo incontro della breve carriera. Infatti, pur avendo 52 anni, questo di Los Angeles contro Larry Hopkins è stato l’unico incontro della sua vita.
A Dewn
ey non importava vincere o perdere, la sua vittoria è stata esserci arrivato su quel ring, dopo 25 anni passati in carcere per un delitto che non aveva commesso. Con ostinata testardaggine si era allenato nella speranza di poter combattere da uomo libero (si è anche laureato due volte) ed ora che è riuscito a farlo ha anche deciso che ciò che doveva fare era stato fatto e che la sua età non gli consentiva di guardare alla carriera futura.
Repubblica titolava “la favola di Dewey… ” ma francamente non credo che la sua vita sia stata una favola e nonostante la prova di grandissima fede in se stesso, probabilmente Bozella avrebbe fatto volentieri a meno di vivere senza la sua libertà per così tanto tempo.
Cosa la boxe abbia in se nell’inventare storie così straordinarie non è argomento che possa esaurirsi in un post di un blog ma è certo che al confronto il tuffo dell’attaccante neppure sfiorato dal portiere per un rigore o le sue contorsioni per ottenere l’espulsione di un avversario appaiono come una delle pergiori rappresentazioni (nello sport) della miseria umana.